domenica 2 marzo 2008

Percorrendo tempi precari

Leggo solo oggi dei maltrattamenti subiti da una cassiera della catena Esselunga (Mobbing, la cassiera in lacrime "Umiliata, ho pensato di morire" - La Repubblica 1 marzo 2008). Purtroppo non penso che episodi del genere siano da considerarsi solo come casi isolati in questo paese oramai democraticamente allo sbando.
Il capitale infatti, alleandosi organicamente con il ceto politico, è riuscito ad imporre l'attuazione di politiche economiche e finanziarie che prevedono la subordinazione dei diritti delle persone e dei lavoratori alle esigenze del mercato (Legge 30, tentativi di soppressione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, Riforme del Sistema Previdenziale, etc...).
I padroni di questo paese hanno giustificato queste politiche, sempre e comunque, sacralizzandole e definendole inevitabili (quando di inevitabile c'è solo la morte). Poi, quando poteva essere arrivato il momento di redistribuire la ricchezza, si sono opposti giustificando tali scelte con le difficoltà economiche internazionali.
Evidentemente soffrono di demenza senile: strano che non ricordino mai che grazie a queste difficoltà economiche internazionali loro hanno continuato ad arricchirsi (magari sfruttando i poveri sempre più poveri).
I sindacati come reagiscono a tutto ciò? Introdotti organicamente nell'economia di mercato non hanno nessun interesse nel difendere realmente i diritti dei lavoratori. Nel caso dell'Esselunga ad esempio le azioni di protesta più eclatanti sono consistite nella proclamazione di uno sciopero di una sola giornata ed in un presidio di solidarietà con la lavoratrice. A me sembra un po' pochino come gesto di solidarietà ad una persona che non solo è stata oggetto di vessazioni padronali inaccettabili ma che è stata anche aggredita fisicamente.
Per timore di essere considerato il solito estremista di sinistra che farnetica contro la classe padronale ho ricercato su google le parole mobbing ed esselunga. Sorpresa tra le sorprese tra le pagine trovate ce n'era una di Diario.it.
L'articolo in questione è datato 1 agosto 2002 ed ho pensato di riportarlo interamente.

Esselunga, diritti corti corti
di Sandro Gilioli (Diario.it - 1 agosto 2002)

La catena di supermercati Esselunga è diffusa al Centro-Nord. Il primo punto vendita venne inaugurato nel 1957 a Milano. Oggi il gruppo conta oltre cento sedi, dislocate in Lombardia, Toscana, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto. Il fatturato dell’azienda, che da lavoro a circa 13 mila persone, supera i 3,36 miliardi di euro l’anno.

MILANO
Qualcuno avvisi Berlusconi e Tremonti che il loro modello di liberismo in Italia esiste già. Viene sperimentato, ogni giorno, in un’azienda con 13 mila dipendenti e un solo padrone. Un’azienda dove il sindacato non esiste o quasi e si lavora perfino il primo maggio. Un’azienda dove le moderne teorie sulla motivazione si mescolano al vecchio autoritarismo di fabbrica. Un’azienda «totale», com’è stata definita, perché tende ad abolire l’identità individuale schiacciando tutti sull’obiettivo unico della qualità e del profitto. Un’azienda che licenzia senza problemi i (pochi) dipendenti che denunciano il clima interno. Un’azienda che si propone come punta di diamante del nuovo capitalismo e tuttavia rifugge la Borsa, perché il suo proprietario non intende condividere la gestione, non rilascia interviste e si fa fotografare il meno possibile.
In questa azienda probabilmente siete entrati qualche volta anche voi, soprattutto se abitate nel Nord. Si chiama Esselunga, è uno dei colossi della grande distribuzione italiana. Ed è lì, tra i banconi dei formaggi e gli scaffali dello scatolame, che si scopre dove vogliono portarci Berlusconi e Tremonti.
Dietro il modello di neocapitalismo aggressivo incarnato da Esselunga c’è un anziano signore che si chiama Bernardo Caprotti. Nel 1957 aprì, con l’aiuto del miliardario americano Nelson Rockefeller, il primo supermercato italiano: era – ed è ancora – in viale Regina Giovanna, a Milano. Il gruppo si chiamava «Supermarkets italiani Spa», ma poi la esse iniziale (disegnata dal grafico Max Huber con una coda lunghissima) finì per dargli il nome attuale. Allora la maggior parte dei commenti fu negativa, se non ironica: gli italiani sono abituati al negozietto sotto casa, si diceva, non faranno mai la spesa in un enorme e algido magazzino dove non vengono neppure serviti.
Poi si è visto com’è andata. Oggi la catena fattura quasi tre miliardi e mezzo di euro l’anno e i punti vendita sono un centinaio, concentrati soprattutto in Lombardia e Toscana.
Fin dai suoi esordi, Esselunga ha interpretato – o forse addirittura anticipato – lo spirito del tempo. Nei primi anni Sessanta, per esempio, quei magazzini in stile americano furono l’emblema della modernizzazione e vennero presto imitati da altri (comprese le cooperative rosse). Più avanti, mentre in tutto il mondo si diffondevano i movimenti di protesta giovanili, in Esselunga coniavano lo slogan «Fate la spesa, non la guerra». Nel 1979, con l’inflazione che volava oltre il 20 per cento, il claim diventò: «Esselunga, prezzi corti». Negli anni Novanta e 2000 lo Zeitgeist ha fatto prevalere l’ironia, ed ecco le pluripremiate campagne dell’agenzia Armando Testa come «Topolino o rapanello?», «Coniglietti o kiwi?» fino ai recenti «John Lemon» e «Porro Seduto».
Il paradosso di Esselunga è che ufficialmente si propone come azienda modello, politicamente corretta e di mentalità aperta. Nel suo sito internet, per esempio, assicura di garantire un «salario equo» a tutti, si vanta di non vendere cibi transgenici e di aver stretto accordi con le associazioni per il commercio equo e solidale. L’ufficio stampa aggiunge che il contratto integrativo è ai massimi livelli salariali e che l’orario di lavoro effettivo è di 36 ore la settimana, contro le 38 di altre catene. Insomma, un quadretto idilliaco. Che tuttavia stride paurosamente con la realtà che sta emergendo da qualche mese, cioè da quando – a poco a poco – alcuni dipendenti ed ex dipendenti hanno iniziato a uscire allo scoperto rovesciando sull’azienda di Caprotti una quantità impressionante di accuse: si parla – nelle lettere a giornali locali e nelle e-mail inviate ai vari siti di chainworkers – di ricatti continui, di mobbing diffuso, di controlli a vista, di lavoratori part-time costretti al tempo pieno, di attività antisindacali e di angherie degli ispettori.
Ma il bubbone è esploso veramente negli ultimi mesi, quando in Lombardia l’azienda ha licenziato e querelato (con richiesta milionaria di danni) due suoi dipendenti – Massimo Brunetti e Cosmi Panza – che su un sito internet avevano definito «mafioso» l’atteggiamento aziendale nei confronti del personale. Questo atto di forza si è rivelato un mezzo boomerang, perché la vertenza ha convinto il sindacato ad aprire finalmente il dossier Esselunga, facendo venire a galla (e non più in forma anonima) decine di denunce sulle condizioni di lavoro, sul clima di paura interno e sulla grande arbitrarietà – al limite del potere assoluto – con cui i capi gestiscono turni e mansioni, domeniche e straordinari, permessi e punizioni. Giovanni Gazzo, il segretario lombardo della Uil-TuCs, usa in proposito un lessico un po’ più duro: parla di «un’azienda dove c’è un rigido sistema di controllo del sacro canone, un sistema dove tutti sono controllori e controllati, un universo totalitario, un regime di fatto, un caso di negazione della libertà e dell’integrità psicofisica della persona, un luogo dove avviene un processo di annientamento dei diritti dei lavoratori e chi non si consegna all’azienda viene inserito nel libro nero». Secondo Gazzo, parlare di mobbing all’Esselunga è riduttivo, perché «il meccanismo repressivo è più grande e riguarda tutti i dipendenti: si tratta di un mobbing strutturale e non occasionale, insito nella cultura organizzativa dell’azienda, che intende la flessibilità come espianto dei diritti, secondo un’ideologia di estremismo imprenditoriale». Gazzo sottolinea che ispettori e capi hanno l’abitudine di «accerchiare i singoli dipendenti in angoli isolati del luogo di lavoro per intimorirli con rimproveri e pressioni». E conclude: «In Esselunga c’è una relazione tra i profitti straordinari e la straordinaria assenza di diritti».

CHAINWORKERS. Sembrano parole pesanti, ma se si va a sentire qualche altro sindacalista che ha avuto a che fare con Esselunga, ci si accorge che Gazzo in realtà è un moderato. Bruno Rastelli, della Filcams Cgil, paragona l’azienda di Caprotti a una fabbrica inquinante. Alex Foti, uno dei giovani dipendenti di catene commerciali che hanno dato vita al sito chainworkers.org, propone «una campagna unitaria contro Esselunga con picchetti davanti ai supermercati, massa critica agli ingressi e boicottaggio dei prodotti». Proprio sul sito di chainworkers, del resto, affiorano altre testimonianze di lavoratori ed ex lavoratori Esselunga che parlano di «feroci controlli», «rapporti dispotici» e «flessibilità selvaggia», per cui «sai quando inizi il turno ma non sai mai quando finisci». Richiesta di fornire una replica a queste accuse, Esselunga risponde con queste quattro parole: «Non corrispondono a verità».
E si ottiene la stessa replica, identica, quando si pone all’azienda qualche domanda sui fatti avvenuti a Firenze, al supermercato di via De Amicis, dove qualche mese fa un dipendente è morto all’improvviso in orario di apertura: i colleghi, sconvolti, hanno chiesto alla direzione di sospendere le vendite per almeno mezz’ora in segno di rispetto, ma l’ideologia del mercato ha prevalso ed Esselunga non ha chiuso nemmeno per un minuto. Allo stesso modo, nessuna spiegazione viene data in relazione a un’altra denuncia che viene da Massa, dove l’azienda userebbe i giovani con contratti a termine (e dunque più ricattabili) per sostituire i dipendenti fissi che aderiscono agli scioperi. La vicenda è finita in Parlamento (con un’interrogazione della deputata diessina Elena Cordoni), ma Esselunga si rifiuta di entrare nel merito limitandosi a un secco: «È tutto falso». Certo è, invece, che i contratti di formazione sono usati in abbondanza in tutta l’azienda di Caprotti, perché creano rapporti di forza piuttosto sfavorevoli al lavoratore, disperatamente in cerca di conferma al termine dei venti mesi e dunque disposto a tutto quanto a tempi e mansioni.
Ancora silenzio da parte dei vertici sul grande supermercato di San Donato milanese dove le dipendenti hanno rivelato al settimanale locale L’Eco di non poter neppure andare a fare la pipì: i sorveglianti infatti restano fuori dalla porta e bussano dopo pochi minuti. Con molta riservatezza aziendale ci si scontra anche quando si chiedono spiegazioni sul caso Jasmine, una lavoratrice somala di 23 anni che era in servizio all’Esselunga di Casalecchio di Reno (in Emilia) ma dipendeva da una cooperativa di pulizie esterna: il primo giorno di Ramadan la ragazza, di credo islamico, ha suscitato le ire del direttore del supermercato per essersi presentata con un velo sul capo, ed è stata licenziata. «Mi hanno detto: o il lavoro o il velo», racconta Jasmine. Che aggiunge: «In verità il mio non era nemmeno uno chador, ma un semplice fazzoletto rosso decorato che lasciava scoperto il viso».
L’azienda di Caprotti si chiama fuori: «Abbiamo appaltato le pulizie di Casalecchio a una società con personale proprio, che svolge il servizio in piena autonomia. Non esiste, pertanto, alcun rapporto tra Esselunga e il personale della ditta appaltatrice: la signora in questione era una dipendente di tale società. Insomma Esselunga è estranea ai fatti». Già. Peccato che a lamentarsi del velo sia stata non la cooperativa, ma la direzione del grande magazzino locale. E peccato che dopo essere stata mandata via dal supermercato, la dipendente sia stata riassunta dalla stessa cooperativa per fare le pulizie in un altro posto, una casa di riposo, dove nessuno ha da ridire per il fazzoletto.
Quello dell’outsourcing, cioè dell’uso di personale esterno, è del resto un altro aspetto del nuovo capitalismo di cui Esselunga si fa volentieri interprete. Il sindacato di base denuncia che nello stabilimento principale dell’azienda, a Pioltello, vicino a Milano, «interni ed esterni lavorano fianco a fianco», ma «i secondi sono costretti a carichi di lavoro quasi raddoppiati, con turni prolungati e decisi giornalmente, spesso in assenza di misure antinfortunistiche». La Asl, secondo il sindacato di base, ha riscontrato un’incidenza di infortuni tra i soci-lavoratori di dieci volte superiore rispetto a quella dei dipendenti «diretti» di Esselunga. Sempre a Pioltello è emersa, qualche tempo fa, la vicenda di una trentina di filippini (dipendenti anche loro di una cooperativa) licenziati per aver tentato di organizzarsi sindacalmente. Esselunga, naturalmente, dice di non averci nulla a che fare: gli asiatici erano di un’altra società, «noi abbiamo vinto tutte le cause che ci hanno fatto».
Eppure, spiegano alla Filcams Cgil milanese, non si può dipingere semplicisticamente Caprotti come un padrone delle ferriere ed Esselunga come un lager dove tutti i lavoratori vorrebbero ribellarsi. La situazione reale è più frastagliata e la politica dell’azienda pure. Certo, ci sono controlli stretti e verifiche continue dell’organizzazione, talvolta angherie e maltrattamenti, ma i dipendenti – soprattutto i quadri – vengono anche stimolati con premi e promozioni in misura più larga che nella concorrenza. La filosofia dell’alta qualità dei prodotti, un vero pallino di Caprotti, viene usata per coinvolgere il personale e farlo sentir parte di un progetto al servizio del consumatore. E chi mostra di adeguarsi al modello aziendale, chi accetta i riti gerarchici, chi offre la massima disponibilità, chi evita il contagio sindacale, chi offre il caffè al suo superiore, chi s’interessa alla buona esposizione delle merci e alla pulizia dei corridoi, chi chiede notizie sugli incassi della giornata, insomma chi accetta di vivere l’azienda come una famiglia non viene affatto maltrattato. Anzi: ottiene promesse di carriera e turni migliori. Anche così, forse, si spiegano le difficoltà che il sindacato incontra in molti supermercati: «quelli che non ci stanno» rappresentano alla fine una quota minoritaria e la loro rabbia non trova facilmente né solidarietà né rappresentanza. Tanto più in un’impresa secondo la quale «accettare il sindacato in azienda è come portarsi le puttane sotto casa», come ha elegantemente asserito un dirigente Esselunga di Milano, creando qualche imbarazzo allo stesso Caprotti.
Per contro, la politica di incentivazione, specie ai livelli più alti, regala a Esselunga la fama di azienda-mito nella grande distribuzione. In particolare, ci sono buyer (i compratori di quelle merci che poi Esselunga rivende al dettaglio) che con il tempo arrivano a guadagnare attorno ai 6-7.000 euro netti al mese. Il loro mito e modello è un’antica istituzione aziendale, certo Guaitamacchi, che parlando metà in italiano e metà in milanese ha cresciuto nei decenni la generazione dei buyer attuali, abituandoli a lavorare anche 14 ore al giorno, spedendoli al mattino alle sei ai mercati generali del pollo e della carne.

INDAGINE SOCIOLOGICA. Questo mix di autoritarismo e premiazione – modello a cui aspirano tanti imprenditori che vedono in Caprotti il loro idolo – ha convinto la Uil-TuCs lombarda a far partire uno studio sociologico sull’Esselunga, in collaborazione con la cooperativa Sensibili alle foglie, quella creata da Renato Curcio. Ne è nato un libro appena uscito che s’intitola appunto L’azienda totale (Sensibili alle foglie, 104 pagine, 12 euro). Il campo teorico della ricerca è tutta la grande distribuzione, ma il sindacato non ha difficoltà a spiegare che «l’azienda immaginaria» indicata nel libro altro non è che il gruppo di Caprotti. «Il titolo», spiega Curcio, «si riferisce al fatto che, come il carcere o il manicomio, a volte anche l’azienda diventa un’istituzione totalizzante, cioè che occupa totalmente la vita di una persona, la cui identità individuale non conta più nulla perché viene annegata nell’identità aziendale». Per raccontare Esselunga e le altre aziende simili, Curcio parte da lontano: da un monaco zen giapponese, Sotetsu, che viene educato fin dalla più tenera età alla disciplina, all’obbedienza e alla sottomissione al suo ordine, a cui dovrà essere leale fino alla morte. Insomma, cresce nel culto del sacrificio di sé in nome di una grande causa. Nel corso della sua vita, però, Sotetsu vede cambiare (due volte) sotto gli occhi la grande causa a cui tutto offrire: prima è l’ordine monastico, poi (durante la guerra mondiale) è l’imperatore, infine (nel dopoguerra) è l’azienda. Infatti negli anni Cinquanta e Sessanta Sotetsu scopre che gli stessi maestri zen che gli avevano insegnato tutto sono passati al servizio delle corporation e che gli stessi principi (assunzione dell’identità collettiva ed eliminazione dell’identità personale) sono applicati all’interno delle aziende per creare più coinvolgimento e più produttività. Nel 1983 Sotetsu si suicida, ma le dinamiche da lui esposte si estenderanno rapidamente al di fuori del Giappone, fino a coniugarsi perfettamente con le esigenze del nuovo capitalismo. «E la grande distribuzione», dice Curcio, «applica ormai gli stessi dispositivi di negazione dell’identità personale mutuati da quella cultura giapponese». Meccanismi in cui la parola chiave è «disponibilità» nei confronti dell’azienda, sia in termini di orari sia come adesione ideologica. Curcio lo definisce «un ipermobbing», perché si impone al lavoratore di conformare la sua persona agli interessi dell’azienda fin dal primo giorno in cui prende servizio. E la sofferenza che ne deriva, quella sofferenza causata dalla soppressione dell’io, finisce per trovare uno sfogo nella medicalizzazione, cioè negli psicofarmaci, il cui consumo in Italia è in crescita geometrica.
Emerge così, in modo piuttosto violento, un altro aspetto in cui Esselunga rappresenta al meglio il peggio della modernità, cioè la prevalenza assoluta del consumatore sul produttore. Un «effetto collaterale» del neocapitalismo per cui alla qualità del prodotto offerto al consumatore viene sacrificata la qualità della vita imposta al produttore. «La soddisfazione del cliente è il principale valore aziendale», recitano le brochure del gruppo: quello che viene taciuto è il costo umano, esistenziale, che sta dietro l’idolatria del servizio offerto al cliente. «Prima o dopo», dice Gianni Rodilosso, segretario nazionale della Uil-TuCs ed ex lavoratore Esselunga, «ci si accorgerà che il consumatore altro non è che un produttore che ha finito il suo turno di lavoro. E questo vale per la grande distribuzione come per i call center, per i fast food come per le aziende della old economy. Ma non è un percorso semplice né immediato».

CONTRATTI CAPESTRO. Nell’attesa, il vecchio Bernardo Caprotti continua a ispezionare personalmente e in incognito i suoi supermercati, magari in compagnia del figlio e delfino Giuseppe. Vanno a verificare che la verdura sia fresca, i corridoi puliti e le cassiere veloci. Obiettivo più frequente, il grande magazzino di viale Piave, a Milano, non lontano dall’appartamento del patron di Esselunga. A temere questi raid non sono soltanto i lavoratori della catena, ma anche i suoi fornitori: produttori di vini e di tortellini, di carta igienica o di fagioli borlotti che ambiscono a vedere la propria merce ben esposta nei negozi Esselunga «famosi per la qualità» (come recita un altro slogan aziendale). Il punto è che arrivare sugli scaffali di Caprotti non è affatto semplice: a mezza bocca, i fornitori raccontano che il gruppo impone contratti capestro e sconti feroci, senza alcuna garanzia di fatturato, forte della sua immagine istituzionale, soprattutto in città come Milano e Firenze. E chi non si piega, resta fuori: negli anni Ottanta fece scalpore un litigio con i Barilla che costò al gruppo emiliano una lunga esclusione dei prodotti Mulino Bianco dagli scaffali della catena distributiva. Qualcuno, tra i fornitori, parla esplicitamente di «ricatti», ma la parola viene pronunciata solo sotto il più assoluto anonimato.
Altri invece definiscono Esselunga «una controparte dura ma affidabile», che pone condizioni pesanti ma poi garantisce l’effettiva esposizione dei prodotti negli spazi concordati, al contrario di altri gruppi concorrenti.
Chissà se a Caprotti tutto questo recente baccano attorno a Esselunga interessa o no. Più probabilmente, gli darà fastidio che un’azienda storicamente familiare come la sua sia divenuta oggetto di studi sociologici e sia considerata punta di quell’iceberg che è il neoliberismo totalizzante. Proprio lui, che per l’estrema riservatezza nei rapporti con i mass media è stato paragonato addirittura a Enrico Cuccia. Lui che ha investito miliardi per cucire, anno dopo anno, un’immagine positiva e politicamente corretta attorno al suo gruppo, proibendo (primo in Italia, insieme con la Coop) tutti gli alimenti transgenici e puntando sul mercato del biologico. Lui che ha sponsorizzando riserve ecologiche e naturali, come la Fattoria delle Rondini, un parco della Lipu appena inaugurato sul Ticino. Lui che ha preso accordi con associazioni «di sinistra» come Ctm Altromercato per portare nella grande distribuzione i prodotti del commercio equo e solidale. Lui che, infine, ha dato vita a un progetto contro il lavoro minorile nel Terzo mondo, inserendo tra i premi della Fìdaty Card i palloni da calcio garantiti antisfruttamento con lo slogan «Esselunga dalla parte dei bambini».
Già, la Fìdaty Card, il piccolo grande fratello in versione supermercato, introdotta da Caprotti nel 1994 e oggi nelle tasche di oltre due milioni di persone. Più del 90 per cento del venduto aziendale, ormai, passa attraverso questo filtro. La carta esiste in varie versioni, ma fondamentalmente ha lo stesso scopo: regalare sconti e premi ottenendo in cambio la risorsa più preziosa nel nuovo capitalismo, cioè le informazioni. In particolare, informazioni sui gusti dei clienti, sulle abitudini d’acquisto, sui comportamenti di fronte a un nuovo packaging, a una promozione, a un particolare posizionamento sugli scaffali.
Ma la Fìdaty rivela anche interessi, hobby, stili di vita: se compri cibo per gatti si sa che hai in casa un gatto, se acquisti spesso scatole di profilattici racconti al signor Caprotti che hai un’intensa vita sessuale, se passi ai pannolini lo informi che hai avuto un bimbo. E poi, che cosa puoi sapere di quel che accade a queste notizie su di te? Quanto sarebbe disposta a pagare un’azienda di cibi per gatti, di profilattici o di pannolini per conoscere i nomi, gli indirizzi, i gusti e le abitudini d’acquisto dei propri potenziali clienti? Il gruppo naturalmente nega di vendere informazioni a terzi: «I dati sono trattati secondo la legge sulla privacy e non vengono commercializzati», assicura l’ufficio stampa. Sarà. Però quando sullo scontrino ti ritrovi gli auguri per il compleanno, qualche perplessità sulla Fìdaty viene anche al meno smaliziato degli avventori.
Ma in tutta questa esibizione di modernità, nel bene o nel male, c’è in Esselunga anche un elemento forte di caro, vecchio capitalismo nostrano: i rapporti con il potere politico. Caprotti è troppo intelligente per non sapere che in Italia non basta premiare e punire i dipendenti, non basta inseguire il mito della qualità totale, non basta imporre le proprie condizioni ai fornitori: bisogna anche coccolare gli onorevoli, sedurre gli assessori, coltivare i ministri. Ed ecco allora il patron di Esselunga comparire prima tra i finanziatori di Bossi e poi tra quelli di Forza Italia, con tanto di cene fra imprenditori per foraggiare le campagne elettorali azzurre.
Generosità, simpatia politica, apprezzamento personale? Certo, certo. Ma a Esselunga arrivano subito anche concessioni edilizie su aree dismesse a Milano e dintorni, soprattutto da Albertini. Il quale – denuncia il leader dell’opposizione milanese, Sandro Antoniazzi – «ha appaltato all’Esselunga nove piani su 11 di ripristino urbano». La riconversione delle ex fabbriche del Nord in edifici commerciali è una grande festa appena iniziata, e Caprotti è uno dei principali invitati.
Il rapporto con la Lega in verità è peggiorato da quando la Rewe, azienda tedesca della grande distribuzione a lungo alleata con Esselunga, ha costruito un Penny Market proprio sullo storico pratone di Pontida, quello dei megaraduni padani. Bossi non ha gradito l’ingombrante hard discount e se n’è lamentato a modo suo, anche durante gli ultimi comizi. Restano ottime invece le relazioni con Berlusconi, con il quale Caprotti non nasconde di trovarsi in piena sintonia da anni. Anche la scelta di tenere aperti i supermercati nei giorni del 25 aprile e del 1° maggio, date storicamente sacre alla sinistra, ha un palese significato politico, benché l’azienda si trinceri dietro la consueta filastrocca consumerista («Abbiamo voluto solo garantire il servizio ai nostri clienti»). Tra i primi disegni di legge del suo secondo governo, Berlusconi ha inserito la riduzione dei benefici fiscali di cui godono le cooperative. Sarà un caso, ma il maggior concorrente di Caprotti è proprio la Coop.

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